La passione per il vino accomuna tutti gli italiani; che sia un barolo piuttosto che un passito levar calici è un’abitudine che accompagna la quotidianità di tutto lo stivale.
Tuttavia è solo da marzo che, grazie al regolamento europeo n.230/2012, nasce il vino biologico. Prima di questa data esisteva una dicitura diversa “ vino da uve da agricoltura biologica “.
La differenza tra i due marchi è notevole: il primo si ferma all’origine delle uve, il secondo invece riguarda la trasformazione dei grappoli.
Teoricamente l’uso di uve bio non escludeva l’impiego di solfiti e additivi, così come accade nella produzione vinicola convenzionale. Nella pratica però ciò non avveniva, in quanto l’uso dell’anidride solforosa era strettamente ridotto, vantando le cantine bio un’ineccepibile prassi igienica. Questa sostanza, infatti, funge da inibitore dello sviluppo di lieviti nocivi, contribuisce a selezionare i più utili e funzionali, impedisce lo sviluppo di microrganismi dannosi e rende i vini più gradevoli al palato.
Per poter essere etichettato bio, un vino deve contenere una quantità di anidride solforosa che può oscillare tra i 60 e gli 80 mg per litro, contro i 160 e 210 mg/l consentiti nella vinificazione convenzionale. Disciplinari più rigorosi, invece, consigliano sia per i bianchi che per i rossi una quantità inferiore ai 20 mg/l, limite ben tollerato sia da intolleranti che da allergici.
Alcune case vinicole riescono a produrre vini “a zero solfiti” che tuttavia vanno consumati in giornata, cosa assai probabile essendo impareggiabilmente prelibati